20.03 (WAR IN IRAK) di Stefano Laboragine - labo'

PENSIERO D'ARTISTA di Stefano Laboragine - labo'

Stavo ripulendo i pennelli prima di fumare seduto davanti al cavalletto, e mi sono ritrovato nelle tasche bucate della memoria, un pensiero di Hildesheimer che dovrebbe più o meno recitare così: più di un artista si spaventerebbe se fosse in grado di interpretare i motivi che stanno all'origine del suo quadro; ma si spaventerebbe ancora di più se fosse in grado di interpretare l'immagine della sua personalità interiore, che è all'origine di quei motivi. (E' questo che dice? bah, comunque qualcosa di molto simile). Mi porterò nel sonno questa inquietante massima e chissà, forse domani incendio la casa.

L'ATTESA di Stefano Laboragine - labo'

L'ALBERO GENEANALOGICO di Stefano Laboragine - labo'

LA TIGRE di Stefano Laboragine - labo'

I polsini della camicia erano lisi dal roteare nervoso e isterico delle mani. Lui l'arte non la insegnava a parole, la descriveva con la mimica esilarante di chi dell'arte ne fa gioco e impegno di vita. Era di origini napoletane e nonostante la sua ridotta statura, le compagne di scuola lo trovavano affascinante. Con le falangi pelose delle mani ci placava le irruenze degli undici anni, ferendo l'aria che nascondeva la plasticità delle opere di Michelangelo o la perfezione del Canova. E noi giovani dalla pelle liscia e con gli occhi attenti per le scoperte dell'età, lo guardavamo senza domande, gioiosi di quel metodo speciale di insegnarci una materia che credevamo inutile. Era facile immaginare ciò che le sue braccia volevano materializzarci in quell'aula. Seguiva la linea retta della luce che dalle vetrate del secondo piano ci riscaldava i Fabriano 4 sparsi sui banchi, e ci trasmetteva la genialità di Picasso e la disperazione di Munch, la magia di Caravaggio e la ricerca di Piero della Francesca, fin'anche l'irrequietezza di Giotto che non riusciva a intrappolare lo spazio dei sui occhi negli affreschi. Mi sorrideva il professore di educazione artistica e raramente mi dava consigli. Ricordo che una volta volle tenersi per se un bassorilievo che avevo realizzato copiandolo da un manifesto del circo Embel Riva, affisso proprio di fianco al cancello della scuola; era una tigre. Gli piacque così tanto da chiedermi di lasciarglielo, perché sarebbe servito a riempire le pareti azzurre della palestra per il Natale.
Con ansia attesi la fine dell'anno per vedere un mio lavoro partecipare per la prima volta a una collettiva. Ma il Natale del 1984 non portò nessuna tigre. Ci rimasi male e con la delusione volli immaginare che quell'opera si trovava a coprire un po' di spazio vuoto tra le pareti del soggiorno dell'insegnante. Un giorno di nove anni fa, lo incontrai. Era lo stesso che ricordavo in piedi sulla pedana avanti la scrivania a fare ombra con le mani sulla lavagna. Ci salutammo con un largo sorriso prima di dirci buongiorno. Con gli occhi corsi subito ai polsi. Quel giorno indossava una camicia a maniche corte e capii subito che aveva smesso di insegnare l'arte con le braccia.
Ci scambiammo le giuste informazioni che in dieci anni potevano tracciare un breve profilo della nostra vita, quel giusto per renderci conto che entrambi avevamo un'altra età. Provai qualcosa di molto simile alla gioia, quando tra le tante domande che un ex insegnante avrebbe potuto rivolgermi, volle sapere se la mia passione per la pittura era in qualche modo rimasta. Fui orgoglioso di rassicurarlo che quelle lezioni, che viste dall'esterno erano più simili all'educazione fisica che a quella artistica, avevano lasciato la giusta traccia. Con l'aria del reduce, fiero mi soppesò sulla spalla una delle due braccia che per anni, avevano insegnato a tante generazioni l'arte come in un film del cinema muto, e mi sorrise.
“Ma lo sai che di te conservo ancora un bassorilievo?”. Provai gioia vera. A distanza di anni, quella tigre scappata da un Natale in palestra, si trovava davvero là, dove per anni avevo voluto immaginarla, tra le mani ormai stanche del mio professore. Avrei voluto ritoccarla per riassaporare quelle ore in cui l'arte, iniziò a invischiarsi nei miei giorni. Ci salutammo.
Non l'ho più visto. Chissà se gioca a muovere l'arte con i nipotini, e chissà se la mia tigre ha mantenuto la stessa aggressività che, con sforzo plastico, ero riuscito a dargli ventidue anni fa... Ovunque tu sia professore, ti auguro di poter toccare tutta l'aria che desideri, come facevi con noi, perché hai saputo insegnarmi tutta la magia di una scienza così bella, che non sempre con le parole si riesce a spiegare. Ciao professò
Stefano Laboragine

EROS & PSICHE di Stefano Laboragine - labo'

IL FONDO DEI PENSIERI

APPASSISCE I FIORI LA GUERRA

IL MONDO DI MARIA

LA MIA LIBERTA' di Stefano Laboragine - labo'

SEGRETI COMUNI di Stefano Laboragine - labo'

NON DALLA VOSTRA PARTE di Stefano Laboragine - labo'



PPP di Stefano Laboragine - labo'

Cosi mi desto, ancora una volta: e mi vesto, mi metto al tavolo di lavoro. La luce del sole è già più matura, i venditori ambulanti più lontani, più acre, nei mercati del mondo, il tepore della verdura,
lungo viali dall'inesprimibile profumo, sulle sponde di mari, ai piedi di vulcani, tutto il mondo al lavoro, nella sua epoca futura.
Ma quel qualcosa di "bianco" che a lettere greche mi presentò, irrevocabile, il sogno conoscitore, mi rimane addosso - vestito, al tavolo di lavoro. Membrana, pasta, o calce nelle ciglia, agli angoli degli occhi: il biancore baroccamente friabile, di spugnoso materiale comacino, del sole nel sonno.
Di quel biancore fu il sole vero, furono i muri delle fabbriche, fu la stessa polvere (nei pomeriggi secchi, quando il giorno prima è un poco piovuto) furono gli stracci di lana, le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati degli operai: fu di quella sostanza la calura oppressa dal ricordo di primavere sepolte da secoli in quegli stessi sobborghi o paesi,
- e pronte, Dio! pronte a rinascere, su quei muretti, su quelle strade. Su quei muretti, su quelle strade, imbevuti di strano profumo, asiatico - primule, strame, passaggi di vecchie pecore scure - fiorivano nel tepore i meli, i ciliegi. - E il colore rosso aveva una brunitura, come se fosse immerso in un'aria di caldo temporale, un rosso quasi marrone, ciliege come prugne, pometti come susine: e occhieggiava, quel rosso tra le brune, intense trame del fogliame, calmo, come la primavera non avesse fretta, volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo, quelle grida di operai, che erano quasi silenzio, solenni e attutite, nel biancore del caos di muretti, marciapiedi di terra fangosa, sagome di fabbriche.
E, su tutto, lo sventolio, l'umile, pigro sventolio delle bandiere rosse. Dio! belle bandiere degli Anni Quaranta! A sventolare una sull'altra, in una folla di tela povera, rosseggiante, un rosso che traspariva violento, con la miseria delle tovaglie, dei copriletti di seta, dei bucati delle famiglie operaie, - ma col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto per l'umidità, sanguigno per un po' di sole che lo colpiva, ardente rosso affastellato e tremante, nella tenerezza eroica d'un'immortale stagione.

OMAGGIO A PIERPAOLO PASOLINI di Stefano Laboragine - labo'


L'ALBERO GENEANALOGICO di Stefano Laboragine - labo'