LA NOTTE DEI SENZA DIMORA di Stefano Laboragine


LA NOTTE DEI SENZA DIMORA - Bologna 17 ottobre 2012


In occasione del 17 ottobre, Giornata Mondiale Onu della lotta alla Povertà, la Consulta contro l'Esclusione sociale del Comune di Bologna promuove un'iniziativa simbolica per ricordare alla cittadinanza bolognese come la povertà crescente e i fenomeni di esclusione sociale rappresentino una drammatica realtà che affligge sempre più anche la nostra città, la sesta in Italia per numero di persone senza dimora.

Mercoledì 17 ottobre associazioni e cittadini sono invitati in Piazza Galvani a partire dalle ore 18. Sono previsti interventi, testimonianze, intermezzi musicali e animazione teatrale. Al termine dell'iniziativa chi vorrà potrà fermarsi a dormire in piazza in segno di solidarietà con chi è costretto ogni giorno a vivere senza dimora.
L'iniziativa della Consulta legata alla Giornata mondiale di lotta alla povertà vuole contribuire a mettere a fuoco alcune criticità della nostra città, i dati forniti dall'Istat danno un valido aiuto in questa direzione. I 1000 senza dimora in città confermano la percezione di crescita del fenomeno che molti addetti ai lavori hanno avuto negli ultimi anni. Parliamo di percezione perché, oltre la fotografia fornita dall'Istat, a livello cittadino non abbiamo un sistema integrato di raccolta dati sulla povertà e sui servizi sociali, ma solo dati frammentati raccolti dalle singole associazioni che ci confermano un incremento della povertà. La Consulta per la lotta all'esclusione sociale crede che la disponibilità di strumenti di analisi del panorama completo della povertà estrema sia un passaggio indispensabile per approntare interventi adeguati a fare soluzioni a un problema che si mostra sempre più vasto e articolato. Un sistema integrato di raccolta e analisi dei dati sulla povertà a disposizione di amministratori e operatori del settore pubblici e privati può avere ricadute positive anche in termini di spesa pubblica: conoscere un problema vuol dire non distrarre risorse per soluzioni inefficaci.

SALVATORE STRIANO - Ad alta voce


LIBERO AD ALTA VOCE di Stefano Laboragine


Il 2012 è stato dichiarato dall’Onu: Anno Internazionale delle cooperative, dove il concetto della cooperazione viene valorizzato in tutte le diverse modalità, attraverso le quali il principio del “fare insieme” assuma le più disparate forme, dalla solidarietà, al lavoro, alla creatività. 
Anche quest’anno la città di Bologna è stata protagonista dell’iniziativa promossa da Coop Adriatica: “Ad alta voce”, che ha lo scopo di promuovere “Ausilio per la Cultura”: il prestito bibliotecario a domicilio per anziani e disabili, realizzato grazie all’impegno dei tanti soci volontari.
Illustri personaggi della cultura Italiana, impegnati in diverse location, hanno letto pubblicamente brani tratti da libri da loro scelti.  La manifestazione ha preso il via da uno dei più importanti luoghi storici del novecento della città: l’Archivio storico della CGIL. In un contesto che da solo racconta decenni di storia di diritti e lotte per il lavoro, si sono alternati alla lettura Ferruccio Brugnaro, Walter Passerini, Salvatore Striano e Vitaliano Trevisan. Personalità diverse per formazione, esperienze e cultura. Le letture si sono avvicendate nell’atmosfera di silenzio e rispetto che il luogo suggeriva. La scelta dei testi è stata, in una certa misura, contestualizzata allo spazio della declamazione, parlando di lavoro, di mobilità, di precariato, di sfruttamento. Senza dubbio, il personaggio che più di tutti ha richiamato la curiosità dei numerosi partecipanti è stato Salvatore Striano.
Striano, detto Sasà è un ragazzo napoletano che ha alle spalle otto anni di carcere e un vero percorso di “riabilitazione”: questa brutta parola che si adopera per indicare le attività di risalita civile e sociale dei detenuti, come se fossero degli invalidi, dei portatori di protesi che riprendono a camminare con delle gambe artificiali. Salvatore ha frequentato, con notevoli risultati, i corsi di recitazione messi a disposizione dal penitenziario e oggi è un vero attore. Ha recitato nel ruolo difficile dello “scissionista” in “Gomorra” del 2008 diretto da Matteo Garrone, ed è uno dei protagonisti di “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, film italiano candidato all’Oscar.
Roberto Morgantini me lo presenta.
Nei suoi occhi scuri c’è il riflesso sveglio dello scugnizzo, delle tante infanzie costruite per i vicoli complicati e stretti di Napoli, dove si nasconde tanta vita che spesso si confonde,  fino ad attecchire, col più pericoloso termine di “mala”. Ha tra le mani un libretto dalla copertina rossa che tormenta tra le dita perché ansioso di renderne pubblico il contenuto, felice di condividere con noi la storia dei giorni intensi del suo ultimo set. E’ bravo Salvatore, è la critica – prima di me – a riconoscergli le caratteristiche dell’attore “impegnato”, ma Sasà è soprattutto un esempio, l’emblema di come gli “errori” commessi dall’uomo, possono essere veicolati verso riflessi di luce più giusti, capaci di far vedere il mondo con lo sguardo e le pupille ripulite dall’opacità del male, dell’illegalità. Quante esistenze si ritrovano intrappolate nelle gabbie della punizione perché condannate dal destino, perché incapaci di immaginarsi una vita diversa? E soprattutto: quanti uomini riescono ad avere gli impulsi giusti dentro le carceri, tali da alimentargli la Speranza? Nel carcere se molli la presa sulle braccia della Speranza, sei finito, cadi nel pozzo della paura, nell’incubo del buio, non riesci a risalire, non hai futuro né dentro, né fuori dalle mura alte e dello stesso colore del penitenziario. Salvatore Striani ce l’ha fatta perché si è aggrappato con la forza alla Speranza, perché ha scoperto i libri, ha conosciuto il teatro, si è – con i sacrifici e le rinunce – “inventato” il futuro. Ora il futuro è il “suo” presente, suo perché lo ha conquistato da solo, con la sete di riscatto. Voglio pensare che l’esperienza di questo ragazzo, diventi la speranza per i tanti giovani che non riescono più a inventarsi un sogno.

LETTERA A PINO MANIACI

Il mio pensiero a un uomo con la schiena dritta.


L'EUROPA SIAMO NOI NESSUNO SI SENTA ESCLUSO di Stefano Laboragine

photo di S. Laboragine

      Questa mattina a Bologna, chi era di passaggio in via Bentivogli, non ha potuto sottrarsi alle note eclettiche e suadenti del violino di Paolo Buconi, che hanno inaugurato la festa interetnica e interculturale denominata «L’Europa siamo noi nessuno si senta escluso». All’ “ingresso” della strada, pronto ad abbracciare tutti, con l’affetto naturale che solo lui sa donare, il padre della manifestazione, il motore di buona parte delle iniziative di solidarietà sotto le due torri: Roberto Morgantini. A valorizzare il manifesto ufficiale, alcune parole “chiave” che da sole configurano lo spirito dell’evento: cittadinanza, diritti, solidarietà, welfare, il tutto arricchito da due delle più importanti espressioni culturali di una comunità: cibo e musica.
     Significativo è anche il quartiere che ospita la festa, quello che i bolognesi da sempre chiamano “Cirenaica”. Tutto ha origine agli inizi del 900, racconta, contenta di conservare un’importante testimonianza, una signora anziana accompagnata sulla sedia a rotelle da un sorriso sincero che viene dalla Romania, anch’essa alla festa con le fragranze e il contributo dei suoi connazionali. Entusiasta, la donnina ottantenne, continua il suo racconto ricordandomi che gli italiani conquistarono la Libia sconfiggendo i Turchi; così, il comune di Bologna di allora, decise di denominare Via Libia una delle strade principali poco lontana da porta S. Vitale. Alla via Libia si aggiunsero via Bengasi, via Zuara, via Homs, toponomastica coloniale cancellata, assieme al Ventennio, e sostituita da nomi di personaggi legati alla Resistenza.
     In un posto che ha conosciuto, attraverso il nome delle proprie strade, il cambiamento, il progresso, in nome della libertà, della pace e della democrazia, oggi si incontrano le bandiere, le tradizioni e la voglia di condividere, nel tentativo sempre difficile dell’integrazione, un momento di piacevole convivialità, dove il cibo di più di dieci paesi, incontra i pentagrammi di strumenti e luoghi diversi, e allora è vera festa. Ancora una volta la città di Bologna si fa interprete, attraverso importanti eventi di socializzazione, della necessità di politiche sociali attive, capaci di realizzare le richieste reali di una comunità multietnica che vive, lavora e studia sotto lo stesso tetto. Tra i numerosi tavoli, colorati dalla diversità delle pietanze, un unico profumo saliva alle narici di tutti i partecipanti: “il profumo dell’umanità”, quella che abita il mondo.



L'EUROPA SIAMO NOI... di Stefano Laboragine

CRONACA DI UN GIORNO CON I DETENUTI DEL CARCERE DOZZA DI BOLOGNA

IL CIELO A STRISCE    di Stefano Laboragine
Oggi sono stato in carcere.
Prima di oltrepassare il portone d’ingresso ho avvertito subito, per istinto primordiale o per urgenza psicologica, la necessità di inalare nei polmoni quanta più aria possibile. L’apnea è un’esperienza che non richiede necessariamente gli abissi, a volte basta un Oceano di cemento e ferro a richiedere l’urgenza del respiro. Mi sono tuffato trasgredendo i rigidi controlli dell’ingresso, portando lì dentro l’ossigeno di fuori che, per quanto inquinato, lascia pur sempre sulla lingua uno strato di libertà. Le note del carcere hanno il suono del cemento: note basse in un andante adagio, a volte accompagnate da intermezzi di note alte, quelle del ferro contro ferro, dell’acciaio lucido e sverniciato. E sono porte che si chiudono a seguire passi, chiavi che girano in senso antiorario a scrivere monotoni spartiti di un’aria triste. Si cercano dettagli per il ritorno, ma il cemento ha un unico colore e l’altezza delle mura laterali non è più larga del soffitto. A terra le ombre dell’inferriate sono cruciverba. La prima finestra che incontro mi ricorda che sono in apnea, mi avvicino velocemente per il ricambio dell’ossigeno. Libero l’aria libera e inizio a respirare quella che, filtrata in quegli spazi, non lo è più. Fuori c’è un cortile a forma di cubo. Tutto sembra assumere la forma del quadrato, unica figura geometrica ad avere uguale anatomia. Il quadrato è la metafora del carcere: comunque lo giri rimane identico, come i giorni sulle pagine lente dei calendari. Alzo lo sguardo al cielo e me lo trovo disegnato in faccia: è uncielo a strisce. Entriamo nella prima sezione dove alcuni detenuti ci aspettano. In fila ci tendono una mano e ci passano un sorriso. Non sono convenevoli gesti di chi vuol mostrare il proprio grado di “riabilitazione”. E’ gioia vera o qualcosa di simile, brandelli di speranza. Sapere che fuori c’è qualcuno pronto a rendergli la vita un po’ più dignitosa trattandoli da uomini, per loro è un segnale importante. Nei loro occhi, con le pupille ristrette dalle tante ore di luce artificiale, c’è scritto grazie. A qualcuno fugge l’emozione, ma subito viene riacciuffata non appena li mettiamo a loro agio. Qui dentro non evade nulla. Descritto nei dettagli il progetto che auspica di ridipingere le celle del Dozza, gli domandiamo che cosa ancora potremmo fare per loro, affinché i loro interessi vengano in qualche modo appagati. Un indice si alza per la risposta: «Vorremmo incontrare dei disabili». Ai nostri sguardi persi nell’incredulità, si sommano quelli soddisfatti dei carcerati che muovono di nascosto sorrisi di compiacenza, e sono movimenti di faccia che hanno la fisionomia della complicità, della decisione unanime. «Perché anche noi siamo portatori di handicap. Una volta fuori, il mondo ci riserverà un’infinità di barriere che non saranno architettoniche, ma sociali, di reintegrazione. Solo chi porta addosso i segni indelebili della malattia, può comprendere le cicatrici che un ex detenuto, una volta libero, si porterà per sempre dietro”. A molti fugge l’emozione, ma questa volta è scaltra, scivola rapida sulle guance e non c’è più possibilità di riprenderla. Entriamo nelle celle da imbiancare. Sul fianco di una cella, all’interno, è disegnato e colorato un muro in un incerto trompe l'oeil. C’è un’inerzia della mente e del corpo che si può salvare solo con la creatività.
Perché in un posto dove il tutto è muro, dove il verticale e l’orizzontale si confondono, si disegna un muro? Tra l’ultima fila di mattoni è tracciato un cerchio bianco. E’ un foro, una virtuale presa d’aria. Non sufficiente al passaggio di un corpo, ma buono a scaraventarci un occhio assetato di paesaggi, di colori e di sogni. Il bianco di quel foro è lo spioncino segreto che scruta un fuori immaginario configurando giorni nuovi. Provo a guardare anch’io attraverso quello spiraglio.
Ne scopro un cielo turchese, di quelli che ricoprono le città nei primi giorni della primavera.
E’ un cielo limpido, senza strisce.